I miei sono paesaggi pigri, dipinti o disegnati in studio, guardando uno schermo che mi permette di affacciarmi dall’alto per vedere direttamente sotto, come se gli aerei avessero finestrini sui pavimenti. Non ho bisogno di viaggiare perché i satelliti hanno già fatto tutto e a me resta solo da inquadrare le immagini: negli ultimi sei anni ne ho accumulate centinaia. Le scelgo perché mi sembrano belle, spesso sono belle anche quando sono tragiche, come le immagini di banchi di ghiaccio nell’Antartide che si sciolgono, o delle devastanti miniere a cielo aperto in Brasile, o dei bacini dove l’acqua bollente fa separare il petrolio greggio dalle sabbie che intrideva nelle foreste del Canada.
Siccome a me paiono belle immagini di tragedie, cerco di riprodurle; cosí facendo rappresento la tragedia ma non sempre con fedeltà. Trovo impossibile dire se il mio lavoro sia astratto o figurativo: credo che dipenda da chi guarda: se uno sa che si tratta di immagini da satellite vedrà un paesaggio, sebbene privo di orizzonte e di prospettiva. Se invece vede il lavoro senza titolo è possibile che non lo consideri figurativo. Per parte mia posso dire che la foto del satellite mi affascina e dipingerla mi permette di frequentarla e di percorrerne le forme e controforme.